Calendimaggio è una composizione di Raimbaut de Vaqueiras ed il suo titolo deriva dalla festa popolare della primavera che si celebrava il primo giorno di maggio. Composto da cinque strofe il brano sfrutta la stessa linea melodica su un testo in provenzale o lingua d’oc, lingua derivata dal latino, che si parlava a quei tempi nella Francia del sud.
Raimbaut de Vaqueiras
Raimbaut nasce nel 1150 (ca,) da umile famiglia a Vaqueiras, in francia; giovinetto entra al servizio del Marchese di Monferrato (nell’attuale Piemonte) e di suo figlio Bonifacio. Nel 1194 per aver salvato la vita del suo signore, nel corso di una campagna militare in Sicilia, viene innalzato allo stato nobiliare. Tra il 1202 ed il 1204 sempre al servizio dei Monferrato prende parte alla Quarta Crociata. Muore nel 1207 assieme a Bonifacio, trucidato con tutta probabilità in Grecia da predoni bulgari.
Di Raimbaut ci sono pervenute sette composizioni vocali, le più significative vengono scritte per celebrare la nomina di Bonifacio a comandante supremo della Quarta Crociata.
I Carmina Burana (Canti di Beuren) sono una serie di brani vocali su testi in latino e tedesco antico risalenti alla prima metà del XIII secolo e rinvenuti nel monastero benedettino di Beuren, in Baviera.
In questo manoscritto si trovano vari brani di carattere amoroso, numerosi lodi del vino e alcuni canti moralistici che prendevano in giro il gioco dei dadi, l’avarizia e la corruzione.
Inoltre, a fianco di canti propriamente liturgici, come quelli riferiti al Natale ed alla Passione di Gesù, si incontrano anche parodie della Messa e della Confessione; i Carmina burana furono infatti composti da anonimi ” clerici vaganti”, cioè da giovani che si spostavano in Europa per studiare: da qui il loro carattere sovente “goliardico” e irriverente. Di alcuni di essi ci è giunta anche la musica, una semplice linea melodica di non facile ricostruzione.
In taberna quando sumus (Quando siamo in osteria) è uno scherzoso coro in onore del vino: la vita è bella e tutti devono bere in quanto ogni occasione è buona per brindare!
Come gli altri brani con musica della raccolta, anche questo non ci dice quali e quante voci dovevano eseguirlo né ci indica gli eventuali strumenti che quasi certamente prendevano parte all’esecuzione; da qui il compito degli esecutori di oggi di integrare queste lacune affidandosi tanto al loro gusto quanto ai loro studi sulla pratica esecutiva tipica dell’epoca.
Pertanto gli strumenti che sentirete e la distribuzione delle voci sono frutto di una personale scelta degli attuali esecutori.
Come esempio di musica del Quattrocento vi presento un brano del compositore fiammingo Guillaume Du Fay; si tratta di una “ballata”, cioè di un brano la cui struttura si rifà a quella adottata molto tempo prima per le canzoni da ballare; ai tempi di Dufay tuttavia questo genere non era più destinato alla danza vera e propria.
Il brano si intitola L’alta bellezza, ed è una lode alla donna amata; non stupitevi che il testo sia in italiano: Dufay infatti lavorò a lungo nella nostra patria.
Testo:
L’alta bellezza tua, virtute, valore a che so donna m’hai donato amore.
Quanto più miro il tuo leggiadro aspetto angelico, real, degno d’impero, d’amor s’infiamma più l’ardente petto.
Svilendo ogn’altro, fermo il pensiero in te sola, dea, signor mio diletto, e farti ancor contenta certo spero.
L’alta bellezza tua, virtute, valore a che so donna m’hai donato amore.
Parafrasi:
La tua grande bellezza, la tua virtù, i tuoi pregi mi hanno, o donna, fatto innamorare di te.
Quanto più contemplo il tuo grazioso aspetto angelico e regale, degno di ogni comando, tanto più il mio ardente petto s’infiamma d’amore.
Disprezzando ogni altro pensiero, mi rivolgo a te sola, mia dea, mio grande diletto, e certo spero che tu ne sia contenta.
La tua grande bellezza, la tua virtù, i tuoi pregi mi hanno, o donna, fatto innamorare di te.
Guillaime Dufay
1400 ca. – Nasce nelle Fiandre e diviene presto fanciullo cantore a Cambrai
1420 – Sceso in Italia come tanti suoi connazionali, entra al servizio della famiglia Malatesta a Pesaro e a Rimini.
1434 – Dopo essere ritornato per qualche tempo a Cambrai ed essere quindi ridisceso in Italia con l’incarico di cantore papale a Roma, entra al servizio dei Savoia a Torino.
1440 – Si stabilisce a Cambrai, ma non per questo rinuncia a compiere ulteriori viaggio, ritornando fra l’altro pressi i Savoia.
1474 – Muore a Cambrai: nel testamento chiede che durante le esequie venga eseguito il suo inno Ave Regina Coelorum (“Salve, Regina dei Cieli”).
Di Dufay ci sono pervenute 9 messe, 32 mottetti e 87 chansons. Molti suoi lavori nacquero per celebrare avvenimenti particolari: ad esempio il mottetto latino Nuper rosarium flores (“Da poco i fiori di rosa”) fu composto per la consacrazione, nel 1446, del Duomo di S. Maria del Fiore a Firenze
I primi passi della nostra civiltà musicale sono stati compiuti nell’ambito della religione cristiana. Questa musica si è sviluppata nel corso dei primi secoli del Cristianesimo assorbendo vari influssi, soprattutto da parte delle attigue civiltà greca ed ebraica, comunemente nota come “Musica Gregoriana”.
Con tale termine ci si riferisce alla musica sacra creata nel periodo che va dai primi anni di diffusione del Cristianesimo (affermatosi ufficialmente nell’Impero Romano con l’Editto di Costantino del 313) sino all’anno Mille circa. Il nome deriva dal benedettino Gregorio che fu papa con il soprannome di Magno (Grande) dal 590 al 604 e che s’impegnò con successo ad accrescere il prestigio della Chiesa e la romanizzazione dei Longobardi, allora padroni di quasi tutta l’Italia settentrionale e di buona parte di quella centrale.
Fra le numerose riforma attuate da Gregorio Magno ci fu anche quella che riguardò il canto religioso: egli infatti, per dare maggiore unità alla Chiesa, si preoccupò di fondere i numerosi canti di preghiera che venivano usati in tutti i centri già raggiunti dal Cristianesimo. A tale scopo raccolse i brani che potevano e dovevano essere utilizzati non solo a Roma, ma in tutti i centri cristiani d’Europa: contemporaneamente riorganizzò la scuola dei cantori e incaricò vari vescovi di diffondere, assieme al Cristianesimo, i nuovi canti.
Il complesso di regole e di tradizioni posto alla base di queste preghiere cantate sarebbe quindi stato rafforzato, due secoli più tardi, durante il regno di Carlo Magno: questi infatti nella sua importante opera di unificazione civile, comunemente nota come “rinascita carolingia”, attuata agli inizi del IX secolo, impose ufficialmente il canto gregoriano in tutte le provincie del Sacro Romano Impero.
Questi canti vennero diffusi e conservati nelle varie abbazie sparse in Italia (ad esempio a Montecassino, poco a sud di Roma, a Nonantola, vicino a Modena,a Benevento, a Novalesa, nel Piemonte occidentale, presso Susa, etc.), in Svizzera (San Gallo, Einsiedeln), in Francia (Cluny, Limoges), in Germania (Reichenau, Fulda), in Spagna (Montserrat, Toledo), in Gran Bretagna (Canterbury, Winchester).
Le caratteristiche più importanti
Il canto gregoriano non aveva alcuna finalità artistica, ma aveva il solo scopo di unire i fedeli nella preghiera e di accentuare così il raccoglimento. Era quindi un canto piano, cioè con note vicine, senza difficili stacchi d’altezza; era un canto monòdico, ove i vari componenti del coro cantavano tutti le stesse note. La lingua utilizzata era sempre il latino ed erano categoricamente esclusi gli strumenti.
Le principali forme di canto
Si distinguevano due forme di canto, l’accentus, ove il testo liturgico veniva declamato, con una nota per sillaba, e il concentus, ove il testo dava invece luogo a vocalizzi (detti melismi) e ad abbellimenti.
Tipica della prima forma fu la salmodia, cioè il canto di un testo biblico (in genere i Salmi di Davide);
della seconda fu invece l’innodia, cioè il canto di inni, anche questi, in genere, su testi biblici; ad esempio un tipico inno fu l’Alleluja (Sia lodato Iddio), ove la voce indugiava a lungo sulle sillabe di questa parola, inanellando su ciascuna varie note, e si effondeva così in un puro canto di gioia.
La teoria
La teoria musicale si rifece, ma solo esteriormente, a quella greca; si basò su scale che conservarono il nome (solo il nome) della antiche scale greche: si ebbero così una scala dorica, una frigia, una lidia ed una misolidia.
A queste quattro scale, definite tutte “autentiche”, vennero poi affiancate altre quattro a loro simili ed a loro direttamente collegate (dette ipodorica, ipofrigia, ipolidia ed ipomisolidia), definite anche plagali cioè “false“, “derivate“. Questi otto tipi di scale furono chiamati modi e vennero a formare il complesso della cosiddetta modalità gregoriana; ancora oggi, quando si dice che un brano di musica è “modale”, si intende che esso si basa su una della otto scale gregoriane.
Il Tropo e la Sequenza
Caratteristici prodotti della musica gregoriana furono il tropo e la sequenza: testi liturgici liberamente creati che sostituivano i vocalizzi degli Alleluja, sovente troppo lunghi e difficili da ricordare. Delle numerosissime sequenza che vennero composte, le più significative sono il Veni, Sancte Spiritus (Vieni, o Spirito Santo) per la festa di Pentecoste, il Dies Irae (Giorno dell’ira) per la messa dei defunti ed evocante il giorno del Giudizio Universale ed il Victimae Paschali laudes (Lodi alla Vittima Pasquale).
La Lauda
Infine è importante ricordare la diffusione della lauda; nata in Umbria nel XIII secolo, era una composizione di genere sempre monòdico, ma di spiccato carattere popolare e in italiano. Veniva cantata da semplici anonimi devoti in occasioni di particolari ricorrenze religiose, specie durante la processioni in onore della Vergine e della Trinità. La laude più importanti sono conservate nel cosiddetto Laudario di Cortona, così definito perché trovato in un convento della cittadina toscana da cui prende il nome.
La nostra civiltà musicale si basa prevalentemente su una scala detta temperata, nella quale le frequenze dei vari suoni, cioè gli Hz, sono stabilite in base ad un preciso valore matematico ottenuto seguendo un complesso calcolo: tale valore è la “costante” 1,0595. Moltiplicando una data frequenza per questo valore si ottiene direttamente il suono più acuto di un semitono: se ad esempio scegliamo il La di 440 Hz, moltiplicando 440 per 1,0595 si ottiene la frequenza del suono che noi chiamiamo La # o Si b.
Proseguendo, cioè moltiplicando questo valore di nuovo per 1,0595, otteniamo la frequenza del Si naturale, e così via.
Ecco pertanto, a titolo di esempio, le frequenze dei 12 suoni diversi calcolati all’interno dell’ottava compresa fra il La di 440 Hz e quello immediatamente più acuto (di 880 Hz), cioè con le vibrazioni raddoppiate.
I brani musicali dell’antica Grecia sono giunti sino a noi a frammenti e anche per questo ci risultano sovente difficili da capire e da apprezzare.
Vi presento l’unico, breve pezzo che invece ci è pervenuto in modo completo: si tratta dell’Epitaffio di Sìcilo. Epitaffio è l’iscrizione che si pone sulle lapidi della tombe, Sìcilo è il nome di colui che l’iscrizione stessa vuole ricordare. Questa breve composizione, trovata durante alcuni lavori per la costruzione di una ferrovia nei pressi di Aydın, inizialmente rimase in possesso del proprietario della ditta di costruzione, Edward Purser; soltanto dopo, nel 1883, fu trovata da Sir Ramsay a Tralleis, una piccola città vicino ad Aydın. Intorno al 1893, l’epitaffio riportava molti danni: la parte inferiore era rotta; la base era stata tagliata da Purser, affinché stesse in piedi come piedistallo per un vaso di fiori della signora Purser: l’epitaffio ora stava perfettamente in piedi, ma il taglio alla base causò la perdita di una linea di testo. La stele passò poi al genero di Purser, Young, che la tenne a Buca, vicino Smirne; qui rimase fino al 1922, quando il console olandese di Smirne portò con sé l’epitaffio a l’Aia. Dal 1966 è conservato al Museo nazionale danese, a Copenaghen
Ecco la melodia; si tratta di una “trascrizione”, in quanto a quei tempi per indicare le note non si usavano né il pentagramma, né la chiave di violino, né le battute; tale melodia vi apparirà sicuramente strana e ben diversa dalle nostre, proprio perché appartiene a una civiltà lontana nel tempo ed ormai scomparsa.
Di seguito, ecco il testo, risalente al I° o al II° secolo dopo la nascita di Gesù Cristo dell’epitaffio in greco, la traslitterazione e la traduzione italiana:
L’epitaffio si può suddividere in tre parti: l’epigramma, un distico elegiaco, la melodia, con un carme di quattro versi disteso su sei righe e la dedica.
Epigramma
« ΕΙΚΩΝ Η ΛΙΘΟΣ
ΕΙΜΙ · ΤΙΘΗΣΙ ΜΕ
ΣΕΙΚΙΛΟΣ ΕΝΘΑ
ΜΝΗΜΗΣ ΑΘΑΝΑΤΟΥ
ΣΗΜΑ ΠΟΛΥΧΡΟΝΙΟΝ »
Testo dell’epitaffio traslitterato in caratteri latini:
« Un’immagine, [io,] la pietra, sono; mi pone qui Sicilo, segno durevole di un ricordo immortale »
Melodia
In questa ricostruzione della stele funeraria si possono notare, tra le righe del testo, delle indicazioni per la durata:
Il punto • , chiamato anche stigme, indica il tempo forte
Le parentesi orizzontali ⏝ collegano gruppi di note
Il trattino ― , chiamato anche diseme, raddoppia la durata della nota
I due trattini perpendicolari ⏗ , anche detti triseme, triplicano la durata della nota
Nella melodia è stata utilizzata la scala ionica: un particolare tipo di scala in cui ogni lettera greca ha un valore differente il che, tradotto in notazione moderna, dà questo risultato:
Vi propongo la lettura di tre brani che parlano della musica e degli strumenti musicali presso popoli di civiltà e di epoche diverse.
La Finlandia possiede un suo antico poema mitologico, il Kàlevala, che nel secolo scorso, per opera di un abile studioso, Elias Lönnrot, venne pazientemente raccolto e trascritto dalle bocche di vari cantori dei villaggi che, di generazione in generazione, si tramandano oralmente quei versi cantati.
Il protagonista è Väinämöinen, un vecchio saggio simbolo della forza dello spirito umano, che ha ideato e costruito il kàntele, una specie di cetra dal suono dolcissimo ancora oggi in uso in Finlandia; con la musica del suo strumento egli riesce a richiamare ed incantare tutti gli essere viventi, e questo ci dimostra che alla musica venivano attribuiti poteri soprannaturali.
Il vecchio, intrepido Väinämöinen, l’etero cantore preparò le sue dita, lavò e purificò i suoi pollici; poi si sedette sulla pietra della gioia, sulla roccia del canto, in cima alla collina d’argento, alla collina d’oro. E prese lo strumento fra le dita, appoggiò la sonora casa alle ginocchia, pose il kàntele sotto le dita e, alzando la voce, disse:
"Vengano adesso coloro che vogliono udire la gioia dei canti eterni, i melodiosi accordi del kàntele, vengano coloro che non li hanno ancora sentiti! Ed il vecchio Väinämöinen incominciò a suonare stupendamente (...) e la gioia splendeva veramente dentro la gioia, la letizia infiammava la letizia (...). E mentre il vecchio pizzicava il kàntele non vi fu alcuno nel bosco, neppure un animale dalle quattro zampe, dagli zoccoli pelosi, che non accorresse ad ascoltare lo strumento, ad ammirare i suoni della gioia. Gli scoiattoli saltano di ramo in ramo, gli ermellini s'arrampicano sui pali degli steccati, gli altri galoppano attraverso le pianure, le linci trasaliscono di gioia. Ed anche il lupo si muove nelle paludi, si sveglia l'orso nella macchia, in fondo alla sua tana nascosta fra i cespugli (...). Tutto ciò che era uccello dell'aria, tutto ciò che volava su due ali scese dal cielo come tempesta di neve e si precipitò verso il cantore per ascoltare il magnifico suono, per ammirare i canti della gioia. L'aquila udì dall'altro delle sue nubi i bei canti del vecchio, lascio nel nido i suoi piccini e venne in gran fretta (...), scendeva dalle sublimi altezze e così lo sparviero si slanciò dal grembo del cielo, le anitre dalle onde profonde, i cigni dai laghi pantanosi, i piccoli fringuelli e tutti gli uccelli cinguettanti (...). Non vi fu un essere sulla terra, non un essere in fondo alle acque, non un pesce dalle sei pinne che non accorresse a sentire i suoni del kàntele, i canti della gioia."
Quello che segue è un esempio di canto funebre dell’Antico Egitto; conosciuto come Il canto dell’arpista, venne composto in onore del capomastro Nefer-hetep;
La musica significa vita e quindi ci è indispensabile nella nostra esistenza, mentre l’aldilà è il regno della pace e del silenzio.
"Vi siano musica e canto dinanzi a te, getta alle spalle tutte le pene e volti l'animo alla gioia, fino a quando verrà quel giorno in cui noi viaggeremo verso quella terra che ama il silenzio..."
Infine, facendo ora un salto nella Grecia Antica, leggiamo una parte del primo di due Inni di chiaro argomento musicale che vennero ritrovati a Delfi. L’Inno, rivolto alle nove Muse, che sono le protettrici delle arti e figlie di Giove nonché sorelle di Apollo, abitano su vari monti, come l’Elicona ed il Parnàso. Presso quest’ultimo si trova la sorgente Castàlia, a loro sacra.
La musica di questo brano, giunta quasi totalmente sino a noi, è stata trascritta ed anche incisa su dischi: essa ha un grande fascino, poiché è in grado di ricreare l’atmosfera sacra che doveva animare i riti di Delfi.
"O voi, figlie dalle belle braccia di Zeus tuonante, voi che avete ricevuto l'Elicona selvoso, venite ad esaltare con i canti il fratello Febo dalla bella chioma, egli che sul doppio vertice di questa cima del Parnàso avanza assieme alle nobili abitatrici di Delgi verso le limpide acque della fonte Castàlia spingendosi lungo il promontorio di Delfi sino al colle fatidico (...).Sui sacri altari il dio del fuoco Efesto sacrifica cosce di giovani tori e misto alle fiamme un profumo d'Arabia s'innalza verso l'Olimpo. L'aulo acuto intona la melodia con arie variate e la cetra dorata risuona con dolce voce per intonare inni. Tutti i musici che abitano in Grecia, presso questo monto dalle cime nevose, sulle cetre celebrano per te, glorioso figlio di Zeus, te che annunci a tutti i mortali profezie divine e veritiere..."
Le basi della Teoria Musicale studiata ed applicata nel nostro Medioevo ha le sue origini dalla musica dell’Antica Grecia. In quella civiltà infatti venivano utilizzate varie successioni di Tetracordi, cioè di quattro suoni separati da intervalli di tono e di semitono.
“Agganciando” due tetracordi successivi si dava luogo a tre tipi fondamentali di scala:
Dorica – Frigia – Lidia
Scale che con varie modifiche, sarebbero state riprese dai nostri teorici del Medioevo.
L’attuale nome delle note si deve al più grande teorico del Medioevo Guido d’Arezzo (995-1050) il quale, oltre il suo Tetragramma (un rigo musicale formato da quattro linee e tre spazi), per dare il nome alle note si servi delle prime sillabe di sei versetti (emistichi) di un conosciutissimo inno di quei tempi in onore di San Giovanni:
Questo inno, come si può vedere dalla musica, presentava poi una particolare caratteristica: la nota corrispondente alla prima sillaba di ogni verso saliva di un grado così da formare una scala di sei note chiamata Esacordo.
Era nata la Scala Moderna, allora di sei note (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La): era il principio base per lo sviluppo della futura Scala Musicale.
Nel 1500, con il sommo teorico musicale Gioseffo Zarlino, si fissa il nostro attuale pentagramma (5 righe e quattro spazi), s’incomincia a suddividere la musica in misure o battute mediante le stanghette verticali, si aggiunge la settima nota Si, che risulterà dalla fusione delle iniziali Sancte Joannes.
Nel corso della metà del 1600 la nota Ut sarà modificata in Do. Il nome attuale deriva probabilmente dalla prima sillaba di Dominus (“Signore” in senso cristiano), ed è stato introdotto perché, uscendo in vocale, si pronuncia in modo più fluido nel solfeggio, mentre la “t” finale di ut può essere causa di fastidi nella pronuncia.
Il nome è stato attribuito a Giovanni Battista Doni, il quale nel XVII° secolo avrebbe sostituito “Ut” con la prima sillaba del proprio cognome; in realtà l’uso della sillaba “Do” è attestato già nel 1536 (molto prima della nascita di Doni) in un testo di Pietro Aretino.
Sono soprattutto gli Arabi ad avere trasmesso alla nostra civiltà gli strumenti più significativi: ad esempio lo ‘Ud (=legno), che ha dato origine al nostro liuto, la Ribeca (lo strumento ad arco usato dai Trovatori) e la Chitarra.
Un tipo di quest’ultima avrebbe appunto preso il nome di “Guitarra morisca” proprio perché importata dai “Mori”, cioè dall’Islam. Anche altre civiltà avrebbero contribuito a fornire esempi di strumenti che, pur con qualche trasformazione, sarebbero stati usati nella nostra civiltà:
La civiltà egizia ad esempio già utilizzava vari tipi di arpa e di trombe (ricordiamo al proposito il caso di Giuseppe Verdi, che per la sua opera lirica Aida, ambientata nell’Egitto antico, fece appositamente costruire particolari trombe simili a quella antiche egizie).
Anche il nostro organo poi era già diffuso presso quella civiltà; infatti sarebbe stato “inventato” da un certo Ctesibio, vissuto ad Alessandria d’Egitto nel III sec. a. C., si trattava di un organo idraulico, che funzionava grazie a pompe azionate dall’acqua; di tale strumento, presto diffusosi anche nella civiltà romana, sono giunti fino a noi alcuni resti, conservati nella colonia di Acquincum (l’odierna Budapest) ed a Pompei;
La civiltà greca usò strumenti a pizzico come la Lira; la Khitara e la Forminx, e strumenti a fiato come l’Aulos, una specie di flauto diritto, talvolta anche doppio (diaulos);
La civiltà ebraica dal canto suo usò strumenti a pizzico come il Kinnor ed il Nebel, abbastanza simili alla nostra cetra;
Quella romana utilizzava prevalentemente strumenti a fiato di bronzo e di impiego militare come il Cornus, la Tuba e il Lituus o altri come la Tibia, affine all’Aulos greco.
Fin dai tempi più antichi gli Ebrei hanno utilizzato due tipi di canto: il primo, riservato ai Salmi dell’Antico Testamento e detto per questo Salmodia: veniva intonato su poche note arricchite da vocalizzi.
Il secondo invece detto Cantillazione, era invece una semplice recitazione intonata, senza vocalizzi, degli altri libri dell’Antico Testamento:
Entrambi questi modi di cantare hanno influenzato non poco la formazione e lo sviluppo di quello che ai primordi della nostra civiltà è stato il “canto gregoriano”.
Dalla Grecia ci sono invece giunto i primi esempi di testi poetici appositamente composti per essere cantati con l’accompagnamento di uno o più strumenti, come nella nostra civiltà avrebbero fatto i Trovatori ed i Trovieri.
Allo stesso modo, le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, ove agivano alcuni attori insieme ad un coro guidato da un corifeo, hanno dato in pratica vita al nostro melodramma: nel Cinquecento, infatti questo genere sarebbe nato grazie anche all’intervento di alcuni dotti, che si riunirono nella famosa Camerata de’ Bardi, desiderosi di portare a nuova vita proprio le antiche tragedie greche.
Targa che ricorda la camerata dei Bardi su palazzo Bardi a Firenze.