Ecco un esempio di canto gregoriano, una delle più celebri sequenze composta intorno al 1025-1050. E’ probabilmente di un certo Wipone, cappellano presso la corte tedesca, e ha il testo in latino.
Si intitola Victimae Paschali Laudes (Lodi alla Vittima Pasquale) ed il suo testo rievoca la Passione di Gesù Cristo, in particolare il momento in cui Maria Maddalena trova il sepolcro vuoto, essendo ormai Gesù risorto.
Testo:
Victimæ paschali laudes immolent Christiani.
Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores.
Mors et Vita duello conflixere mirando: Dux Vitæ mortuus, regnat vivus.
Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?
Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis,
Angelicos testes, sudarium et vestes.
Surrexit Christus spes mea: præcedet suos in Galilaeam.
Scimus Christum surrexisse a mortuis vere: Tu nobis, victor Rex, miserere.
Amen. Alleluia.
Traduzione:
Alla vittima pasquale si innalzi il sacrificio di lode, l’Agnello ha redento il gregge, Cristo l’innocente ha riconciliato i peccatori col Padre.
Morte e Vita si sono affrontate in un duello straordinario: il Signore della vita era morto, ora, regna vivo.
Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via?
La tomba del Cristo vivente, la gloria del risorto; e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le vesti; Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Galilea.
Siamo certi che Cristo è veramente risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi.
Sant’Agostino (354-430) fu uno dei più importanti Padri della Chiesa: pagano d’origine, si convertì al Cristianesimo, venne battezzato da Sant’Ambrogio nel 387 e scrisse numerosi e importanti lavori in latino in cui difese la nuova religione; celebri fra l’altro sono le Confessioni, in cui narra la sua vita e la sua conversione. Nel passo che riportiamo Sant’Agostino parla del “giubilo”, cioè del canto gregoriano “melismatico”, ove la voce, così come avveniva negli Alleluja, si effondeva in lunghi vocalizzi di giubilo, cioè di gioia.
Ciascuno si domanda come cantare a Dio. Devi cantare a Lui, ma, non in modo stonato. Non vuole che siano offese le Sue orecchie. Cantate con arte, fratelli. Quando davanti ad un buon intenditore di musica, ti si dice, canta in modo da piacergli, tu privo di preparazione musicale, vieni preso dall’emozione nel cantare perché non vorresti dispiacere al musicista, infatti quello che sfugge al profano, viene notato e criticato da un intenditore di musica. Orbene, chi oserebbe presentarsi a cantare con arte a Dio, che sa ben giudicare il cantore, che esamina con certezza ogni cosa e che tutto ascolta così bene? Come potresti mostrare un’abilità così perfetta nel canto da non offendere in nulla orecchie così perfette?
Ecco Egli ti dà quasi il tono della melodia da cantare: non andare in cerca della parole (…), canta nel giubilo. Che cosa significa cantare nel giubilo? Comprendere e non saper spiegare a parole ciò che si canta col cuore. Coloro infatti che cantano sia durante la mietitura sia durante la vendemmia sia durante qualche lavoro faticoso, prima avvertono il piacere suscitato dalle parole dei canti, ma in seguito, quando l’emozione cresce, sentono che non possono più esprimerla in parole e allora si sfogano in una semplice successione di note. Questo canto lo chiamiamo “giubilo”.
Il giubilo è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non riesce ad esprimere con parole. E verso chi è più giusto elevare questo canto di giubilo, se non verso l’ineffabile? Dio? Infatti è ineffabile colui che tu non puoi esprimere. E se non lo puoi esprimere, e dall’altra parte non puoi tacerlo, che cosa ti rimane se non giubilare? Allora il cuore si aprirà alla gioia senza servirsi di parole e la grandezza straordinaria della gioia non conoscerà i limiti della sillabe.
Molte composizioni, nonché vari scritto trasmessici dai Trovatori e dai Trovieri, ci forniscono interessanti notizie sia sulla loro attività sia sugli svaghi più caratteristici nella vita di corte del Duecento. Ad esempio una composizione (della quale possediamo anche la musica) creata dal troviere Colin Muset, vissuto nella prima metà del XIII secolo, ci fa capire che la vita e le risorse economiche di questi poeti-musicisti erano strettamente subordinate alla generosità degli aristocratici presso i quali vivevano.
Signor Conte, ho suonato la viella davanti a voi, nel vostro palazzo, e non mi avete regalato nulla, né pagato salario: è villania! Per la fede che devo a Santa Maria, così non potrò stare al vostro seguito: la mia scarsella è poco fornita e la mia borsa poco piena.
Signor conte, suvvia comandate quel che volete di me. Signore, se v’aggrada, suvvia, donatemi un dono, per cortesia! Che ho desiderio, non dubitate, di tornare dai miei: quando faccio ritorno a borsa vuota mia moglie non mi sorride!
Anzi mi dice: “Signor Babbeo, in che paese siete stato , che non avete guadagnato nulla? Troppo siete andato a spasso giù per la città. Guardate com’è floscio il vostro zaino: è pieno soltanto di vento. Sia vituperato chi ha voglia di stare in vostra compagnia!”
Ma quando torno a casa e mia moglie ha adocchiato sulle mie spalle gonfia la bisaccia e ch’io son ben vestito d’un abito foderato, sappiate ch’ella subito ha deposto giù la conocchia senza far commedie e mi sorride schiettamente e mi getta le braccia al collo.
Mia moglie corre a sciogliere il mio zaino senza indugio; la mia serva corre ad ammazzare due capponi per cucinarli in salsa d’aglio; mia figlia mi porta un pettine con le sue mani, cortesemente. Allora sono padrone a casa mia più che nessuno potrebbe narrare.
E così dai Consigli ai giullari del Trovatore provenzale Guiraut de Calanson, vissuto anch’egli agli inizi del Duecento, veniamo a sapere quali dovevano essere i principali compiti dei menestrelli di corte: per farsi bene apprezzare costoro non solo dovevano essere in grado di suonare i più disparati strumenti, ma dovevano avere doti di giocolieri e di ammaestratore di animali!
Sappi percuotere il tamburo e i cimbali (coppia di piattini metallici da percuotersi uno contro l’altro), e far risuonare la sinfonia (strumento a corde, simile alla ghironda, in grado di produrre più suoni contemporaneamente). Sappi lanciare in aria e tenere sul coltello piccoli pomi; imitare il canto degli uccelli; fare giochi coi corbelli (far giochi di prestigio), far saltare scimmie attraverso quattro cerchi; suonar la citòla (strumento a pizzico dalla cassa piriforme costituito da una sola corda) e la mandòla (strumento ad arco costituito da una sola corda); toccar il manicordo (strumento ad arco costituito da una sola corda) e la chitarra; guarnir la rota (strumento simile alla lira, ma suonato con l’arco) con 17 corde; suonar l’arpa, accordare bene la giga (strumento ad arco con 3 o 4 corde e con cassa ricurva) per rallegrare l’aria del salterio. Giullare, tu farai preparare nove strumenti a 10 corde. Se tu impari a suonarli bene, forniranno tutti i tuoi bisogni. Fa’ anche risuonare le lire e tintinnare i sonagli.
I brani musicali dell’antica Grecia sono giunti sino a noi a frammenti e anche per questo ci risultano sovente difficili da capire e da apprezzare.
Vi presento l’unico, breve pezzo che invece ci è pervenuto in modo completo: si tratta dell’Epitaffio di Sìcilo. Epitaffio è l’iscrizione che si pone sulle lapidi della tombe, Sìcilo è il nome di colui che l’iscrizione stessa vuole ricordare. Questa breve composizione, trovata durante alcuni lavori per la costruzione di una ferrovia nei pressi di Aydın, inizialmente rimase in possesso del proprietario della ditta di costruzione, Edward Purser; soltanto dopo, nel 1883, fu trovata da Sir Ramsay a Tralleis, una piccola città vicino ad Aydın. Intorno al 1893, l’epitaffio riportava molti danni: la parte inferiore era rotta; la base era stata tagliata da Purser, affinché stesse in piedi come piedistallo per un vaso di fiori della signora Purser: l’epitaffio ora stava perfettamente in piedi, ma il taglio alla base causò la perdita di una linea di testo. La stele passò poi al genero di Purser, Young, che la tenne a Buca, vicino Smirne; qui rimase fino al 1922, quando il console olandese di Smirne portò con sé l’epitaffio a l’Aia. Dal 1966 è conservato al Museo nazionale danese, a Copenaghen
Ecco la melodia; si tratta di una “trascrizione”, in quanto a quei tempi per indicare le note non si usavano né il pentagramma, né la chiave di violino, né le battute; tale melodia vi apparirà sicuramente strana e ben diversa dalle nostre, proprio perché appartiene a una civiltà lontana nel tempo ed ormai scomparsa.
Di seguito, ecco il testo, risalente al I° o al II° secolo dopo la nascita di Gesù Cristo dell’epitaffio in greco, la traslitterazione e la traduzione italiana:
L’epitaffio si può suddividere in tre parti: l’epigramma, un distico elegiaco, la melodia, con un carme di quattro versi disteso su sei righe e la dedica.
Epigramma
« ΕΙΚΩΝ Η ΛΙΘΟΣ
ΕΙΜΙ · ΤΙΘΗΣΙ ΜΕ
ΣΕΙΚΙΛΟΣ ΕΝΘΑ
ΜΝΗΜΗΣ ΑΘΑΝΑΤΟΥ
ΣΗΜΑ ΠΟΛΥΧΡΟΝΙΟΝ »
Testo dell’epitaffio traslitterato in caratteri latini:
« Un’immagine, [io,] la pietra, sono; mi pone qui Sicilo, segno durevole di un ricordo immortale »
Melodia
In questa ricostruzione della stele funeraria si possono notare, tra le righe del testo, delle indicazioni per la durata:
Il punto • , chiamato anche stigme, indica il tempo forte
Le parentesi orizzontali ⏝ collegano gruppi di note
Il trattino ― , chiamato anche diseme, raddoppia la durata della nota
I due trattini perpendicolari ⏗ , anche detti triseme, triplicano la durata della nota
Nella melodia è stata utilizzata la scala ionica: un particolare tipo di scala in cui ogni lettera greca ha un valore differente il che, tradotto in notazione moderna, dà questo risultato: