La musicalità tra sacro e profano nel Medioevo

Sant’Agostino (354-430) fu uno dei più importanti Padri della Chiesa: pagano d’origine, si convertì al Cristianesimo, venne battezzato da Sant’Ambrogio nel 387 e scrisse numerosi e importanti lavori in latino in cui difese la nuova religione; celebri fra l’altro sono le Confessioni, in cui narra la sua vita e la sua conversione. Nel passo che riportiamo Sant’Agostino parla del “giubilo”, cioè del canto gregoriano “melismatico”, ove la voce, così come avveniva negli Alleluja, si effondeva in lunghi vocalizzi di giubilo, cioè di gioia.

Ciascuno si domanda come cantare a Dio. Devi cantare a Lui, ma, non in modo stonato. Non vuole che siano offese le Sue orecchie. Cantate con arte, fratelli. Quando davanti ad un buon intenditore di musica, ti si dice, canta in modo da piacergli, tu privo di preparazione musicale, vieni preso dall’emozione nel cantare perché non vorresti dispiacere al musicista, infatti quello che sfugge al profano, viene notato e criticato da un intenditore di musica. Orbene, chi oserebbe presentarsi a cantare con arte a Dio, che sa ben giudicare il cantore, che esamina con certezza ogni cosa e che tutto ascolta così bene? Come potresti mostrare un’abilità così perfetta nel canto da non offendere in nulla orecchie così perfette?

Ecco Egli ti dà quasi il tono della melodia da cantare: non andare in cerca della parole (…), canta nel giubilo. Che cosa significa cantare nel giubilo? Comprendere e non saper spiegare a parole ciò che si canta col cuore. Coloro infatti che cantano sia durante la mietitura sia durante la vendemmia sia durante qualche lavoro faticoso, prima avvertono il piacere suscitato dalle parole dei canti, ma in seguito, quando l’emozione cresce, sentono che non possono più esprimerla in parole e allora si sfogano in una semplice successione di note. Questo canto lo chiamiamo “giubilo”.

Il giubilo è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non riesce ad esprimere con parole. E verso chi è più giusto elevare questo canto di giubilo, se non verso l’ineffabile? Dio? Infatti è ineffabile colui che tu non puoi esprimere. E se non lo puoi esprimere, e dall’altra parte non puoi tacerlo, che cosa ti rimane se non giubilare? Allora il cuore si aprirà alla gioia senza servirsi di parole e la grandezza straordinaria della gioia non conoscerà i limiti della sillabe.

Molte composizioni, nonché vari scritto trasmessici dai Trovatori e dai Trovieri, ci forniscono interessanti notizie sia sulla loro attività sia sugli svaghi più caratteristici nella vita di corte del Duecento. Ad esempio una composizione (della quale possediamo anche la musica) creata dal troviere Colin Muset, vissuto nella prima metà del XIII secolo, ci fa capire che la vita e le risorse economiche di questi poeti-musicisti erano strettamente subordinate alla generosità degli aristocratici presso i quali vivevano.

Signor Conte, ho suonato la viella davanti a voi, nel vostro palazzo, e non mi avete regalato nulla, né pagato salario: è villania! Per la fede che devo a Santa Maria, così non potrò stare al vostro seguito: la mia scarsella è poco fornita e la mia borsa poco piena.

Signor conte, suvvia comandate quel che volete di me. Signore, se v’aggrada, suvvia, donatemi un dono, per cortesia! Che ho desiderio, non dubitate, di tornare dai miei: quando faccio ritorno a borsa vuota mia moglie non mi sorride!

Anzi mi dice: “Signor Babbeo, in che paese siete stato , che non avete guadagnato nulla? Troppo siete andato a spasso giù per la città. Guardate com’è floscio il vostro zaino: è pieno soltanto di vento. Sia vituperato chi ha voglia di stare in vostra compagnia!”

Ma quando torno a casa e mia moglie ha adocchiato sulle mie spalle gonfia la bisaccia e ch’io son ben vestito d’un abito foderato, sappiate ch’ella subito ha deposto giù la conocchia senza far commedie e mi sorride schiettamente e mi getta le braccia al collo.

Mia moglie corre a sciogliere il mio zaino senza indugio; la mia serva corre ad ammazzare due capponi per cucinarli in salsa d’aglio; mia figlia mi porta un pettine con le sue mani, cortesemente. Allora sono padrone a casa mia più che nessuno potrebbe narrare.

E così dai Consigli ai giullari del Trovatore provenzale Guiraut de Calanson, vissuto anch’egli agli inizi del Duecento, veniamo a sapere quali dovevano essere i principali compiti dei menestrelli di corte: per farsi bene apprezzare costoro non solo dovevano essere in grado di suonare i più disparati strumenti, ma dovevano avere doti di giocolieri e di ammaestratore di animali!

Sappi percuotere il tamburo e i cimbali (coppia di piattini metallici da percuotersi uno contro l’altro), e far risuonare la sinfonia (strumento a corde, simile alla ghironda, in grado di produrre più suoni contemporaneamente). Sappi lanciare in aria e tenere sul coltello piccoli pomi; imitare il canto degli uccelli; fare giochi coi corbelli (far giochi di prestigio), far saltare scimmie attraverso quattro cerchi; suonar la citòla (strumento a pizzico dalla cassa piriforme costituito da una sola corda) e la mandòla (strumento ad arco costituito da una sola corda); toccar il manicordo (strumento ad arco costituito da una sola corda) e la chitarra; guarnir la rota (strumento simile alla lira, ma suonato con l’arco) con 17 corde; suonar l’arpa, accordare bene la giga (strumento ad arco con 3 o 4 corde e con cassa ricurva) per rallegrare l’aria del salterio. Giullare, tu farai preparare nove strumenti a 10 corde. Se tu impari a suonarli bene, forniranno tutti i tuoi bisogni. Fa’ anche risuonare le lire e tintinnare i sonagli.

Buona Musica!

La Musica dall’alto Medioevo al 1300

I primi passi della nostra civiltà musicale sono stati compiuti nell’ambito della religione cristiana. Questa musica si è sviluppata nel corso dei primi secoli del Cristianesimo assorbendo vari influssi, soprattutto da parte delle attigue civiltà greca ed ebraica, comunemente nota come “Musica Gregoriana”.

Con tale termine ci si riferisce alla musica sacra creata nel periodo che va dai primi anni di diffusione del Cristianesimo (affermatosi ufficialmente nell’Impero Romano con l’Editto di Costantino del 313) sino all’anno Mille circa.
Il nome deriva dal benedettino Gregorio che fu papa con il soprannome di Magno (Grande) dal 590 al 604 e che s’impegnò con successo ad accrescere il prestigio della Chiesa e la romanizzazione dei Longobardi, allora padroni di quasi tutta l’Italia settentrionale e di buona parte di quella centrale.

Fra le numerose riforma attuate da Gregorio Magno ci fu anche quella che riguardò il canto religioso: egli infatti, per dare maggiore unità alla Chiesa, si preoccupò di fondere i numerosi canti di preghiera che venivano usati in tutti i centri già raggiunti dal Cristianesimo.
A tale scopo raccolse i brani che potevano e dovevano essere utilizzati non solo a Roma, ma in tutti i centri cristiani d’Europa: contemporaneamente riorganizzò la scuola dei cantori e incaricò vari vescovi di diffondere, assieme al Cristianesimo, i nuovi canti.

Il complesso di regole e di tradizioni posto alla base di queste preghiere cantate sarebbe quindi stato rafforzato, due secoli più tardi, durante il regno di Carlo Magno: questi infatti nella sua importante opera di unificazione civile, comunemente nota come “rinascita carolingia”, attuata agli inizi del IX secolo, impose ufficialmente il canto gregoriano in tutte le provincie del Sacro Romano Impero.

Questi canti vennero diffusi e conservati nelle varie abbazie sparse in Italia (ad esempio a Montecassino, poco a sud di Roma, a Nonantola, vicino a Modena,a Benevento, Novalesa, nel Piemonte occidentale, presso Susa, etc.), in Svizzera (San Gallo, Einsiedeln), in Francia (Cluny, Limoges), in Germania (Reichenau, Fulda), in Spagna (Montserrat, Toledo), in Gran Bretagna (Canterbury, Winchester).

Le caratteristiche più importanti

Il canto gregoriano non aveva alcuna finalità artistica, ma aveva il solo scopo di unire i fedeli nella preghiera e di accentuare così il raccoglimento.
Era quindi un canto piano, cioè con note vicine, senza difficili stacchi d’altezza; era un canto monòdico, ove i vari componenti del coro cantavano tutti le stesse note.
La lingua utilizzata era sempre il latino ed erano categoricamente esclusi gli strumenti.

Le principali forme di canto

Si distinguevano due forme di canto, l’accentus, ove il testo liturgico veniva declamato, con una nota per sillaba, e il concentus, ove il testo dava invece luogo a vocalizzi (detti melismi) e ad abbellimenti.

Tipica della prima forma fu la salmodia, cioè il canto di un testo biblico (in genere i Salmi di Davide);

della seconda fu invece l’innodia, cioè il canto di inni, anche questi, in genere, su testi biblici; ad esempio un tipico inno fu l’Alleluja (Sia lodato Iddio), ove la voce indugiava a lungo sulle sillabe di questa parola, inanellando su ciascuna varie note, e si effondeva così in un puro canto di gioia.

La teoria

La teoria musicale si rifece, ma solo esteriormente, a quella greca; si basò su scale che conservarono il nome (solo il nome) della antiche scale greche: si ebbero così una scala dorica, una frigia, una lidia ed una misolidia. 

A queste quattro scale, definite tutte “autentiche”, vennero poi affiancate altre quattro a loro simili ed a loro direttamente collegate (dette ipodoricaipofrigiaipolidia ed ipomisolidia), definite anche plagali cioè “false“, “derivate“.
Questi otto tipi di scale furono chiamati modi e vennero a formare il complesso della cosiddetta modalità gregoriana; ancora oggi, quando si dice che un brano di musica è “modale”, si intende che esso si basa su una della otto scale gregoriane.

Il Tropo e la Sequenza

Caratteristici prodotti della musica gregoriana furono il tropo e la sequenza: testi liturgici liberamente creati che sostituivano i vocalizzi degli Alleluja, sovente troppo lunghi e difficili da ricordare.
Delle numerosissime sequenza che vennero composte, le più significative sono il Veni, Sancte Spiritus (Vieni, o Spirito Santo) per la festa di Pentecoste, il Dies Irae (Giorno dell’ira) per la messa dei defunti ed evocante il giorno del Giudizio Universale ed il Victimae Paschali laudes (Lodi alla Vittima Pasquale).

La Lauda

Infine è importante ricordare la diffusione della lauda; nata in Umbria nel XIII secolo, era una composizione di genere sempre monòdico, ma di spiccato carattere popolare e in italiano. Veniva cantata da semplici anonimi devoti in occasioni di particolari ricorrenze religiose, specie durante la processioni in onore della Vergine e della Trinità.
La laude più importanti sono conservate nel cosiddetto Laudario di Cortona, così definito perché trovato in un convento della cittadina toscana da cui prende il nome.

Buona Musica!

Teoria nella musica delle civiltà antiche

Le basi della Teoria Musicale studiata ed applicata nel nostro Medioevo ha le sue origini dalla musica dell’Antica Grecia. In quella civiltà infatti venivano utilizzate varie successioni di Tetracordi, cioè di quattro suoni separati da intervalli di tono e di semitono.

“Agganciando” due tetracordi successivi si dava luogo a tre tipi fondamentali di scala:

DoricaFrigiaLidia

Scale che con varie modifiche, sarebbero state riprese dai nostri teorici del Medioevo.

L’attuale nome delle note si deve al più grande teorico del Medioevo Guido d’Arezzo (995-1050) il quale, oltre il suo Tetragramma (un rigo musicale formato da quattro linee e tre spazi), per dare il nome alle note si servi delle prime sillabe di sei versetti (emistichi) di un conosciutissimo inno di quei tempi in onore di San Giovanni:


Questo inno, come si può vedere dalla musica, presentava poi una particolare caratteristica: la nota corrispondente alla prima sillaba di ogni verso saliva di un grado così da formare una scala di sei note chiamata Esacordo.

Era nata la Scala Moderna, allora di sei note (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La): era il principio base per lo sviluppo della futura Scala Musicale.

Nel 1500, con il sommo teorico musicale Gioseffo Zarlino, si fissa il nostro attuale pentagramma (5 righe e quattro spazi), s’incomincia a suddividere la musica in misure o battute mediante le stanghette verticali, si aggiunge la settima nota Si, che risulterà dalla fusione delle iniziali Sancte Joannes.

Nel corso della metà del 1600 la nota Ut sarà modificata in Do.
Il nome attuale deriva probabilmente dalla prima sillaba di Dominus (“Signore” in senso cristiano), ed è stato introdotto perché, uscendo in vocale, si pronuncia in modo più fluido nel solfeggio, mentre la “t” finale di ut può essere causa di fastidi nella pronuncia.

Il nome è stato attribuito a Giovanni Battista Doni, il quale nel XVII° secolo avrebbe sostituito “Ut” con la prima sillaba del proprio cognome; in realtà l’uso della sillaba “Do” è attestato già nel 1536 (molto prima della nascita di Doni) in un testo di Pietro Aretino.

Buona Musica!